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Differenziale salariale: le donne sono pagate il 20% in meno.

Video sulla disparità di salario tra donne e uomini

Il video gentilmente concesso dalla rete per la campagna europea contro la disparità di salario tra donne e uomini

Equal Pay” significa essere pagate in modo uguale  per aver svolto lo stesso tipo di lavoro. L’essere pagate di meno è una forma di discriminazione verso le donne ed è illegale in molte nazioni del mondo. “Pay Equity” significa essere pagate allo stesso modo per aver svolto un lavoro di uguale valore o di valore comparato – potrebbe anche trattarsi di un lavoro diverso, ma di uguale valore. “Pay Inequity” è illegale in alcune nazioni.
L’Equal Pay Day stabilisce il periodo di “giorni extra” nell’anno corrente, in cui le donne devono lavorare per  raggiungere la stessa paga che gli uomini hanno percepito durante il precedente anno fi nanziario.
L’ Equal Pay Day indica quindi “quanto più a lungo” le donne devono lavorare per percepire la stessa paga degli uomini in un anno.
Così per ogni 12 mesi lavorativi degli uomini, le donne devono lavorare 15 mesi; la fine di quel terzo mese dell’anno (marzo) coincide con l’ “Equal Pay Day”.
Alcune delle ragioni della “Pay Inequity” e del nostro “Pay Gap”, in corso di peggioramento, sono:
• Il lavoro delle donne è sottovalutato
• In quelle professioni dove le donne predominano, i compensi di solito sono più bassi rispetto agli standard industriali
• Le donne molto spesso lavorano part time e per lavori temporanei, in cui le percentuali di compenso orario sono ridotti
• Le donne interrompono più di frequente le loro carriere, per esempio dopo la gravidanza
• Le donne guadagnano meno degli uomini perché gli uomini lavorano in settori meglio pagati e in impieghi meglio pagati
• Le donne spesso si trovano ad affrontare “un soffitto di vetro”; non vengono trasferite nelle posizioni dirigenziali persino quando hanno le stesse qualifiche degli uomini
• Gli stereotipi di ruolo di genere continuano a predominare e le nostre forze lavoro sono spesso discriminate in lavoro femminile e in lavoro maschile.
Nel 2011, le donne guadagnavano il 19,2% in meno degli uomini. Le donne con un lavoro standard sono oltre 4.193.000, in crescita dello 0,5% rispetto al 2010, mentre i colleghi maschi (6.369.000) registrano un calo dell’1,1%. Il lavoro a tempo parziale riguarda in prevalenza l’universo femminile: nelle forme tipiche di part time, orizzontale, verticale e misto.In particolare, le lavoratrici dipendenti italiane guadagno in media 1.131 euro netti al mese, il 19,6% in meno rispetto ai 1.407 dei dipendenti italiani uomini. Gap molto elevato anche tra italiani e stranieri, con una media di 1.286 per i primi (uomini e donne) e di 973 euro netti per gli immigrati. Il divario di genere è più accentuato tra gli stranieri con 1.118 euro per gli uomini e 788 per le donne.Per le donne rimane difficile conciliare lavoro e casa: il 71,3% del lavoro familiare delle coppie è ancora a carico delle donne. In media, giornalmente, guardando all’insieme del lavoro e delle attività di cura, la donna lavora 1 ora e 3 minuti in più del suo partner quando entrambi sono occupati (9 ore e 9 minuti di lavoro totale per le donne contro le 8 ore e 6 minuti degli uomini). Per le coppie con figli il divario di tempo sale a 1 ora e 15 minuti. E’ una questione di produttività e di crescita economica. Bisogna partire da qui, dal fatto – dimostrato da economisti e specialisti di tutto il mondo – che se le donne lavorassero ci guadagnerebbero gli indici economici del paese. Il fattore donna può diventare il jolly da calare in campagna elettorale. D’altra parte hanno diritto al voto 26 milioni di donne e 24 milioni di uomini.
Nel marzo 2000 a Lisbona i paesi europei decisero un piano sull’occupazione femminile intesa, appunto, non solo come una questione di genere ma come volano per l’economia nazionale. I paesi partirono da poche, ma precise considerazioni: se la donna lavora entra più ricchezza in famiglia – a patto che ci sia un sistema di servizi sociali adeguato – aumenta il reddito e nascono più bambini. Fu deciso, era il Duemila, che l’obiettivo era raggiungere – dieci anni dopo, nel 2010 – quota 60 per cento: cioè il sessanta per cento delle donne avrebbero dovuto per quella data risultare impiegate, con un lavoro autonomo o dipendente. La situazione, a due anni da quella scadenza, è che la media europea si aggira sul 57, 4 per cento e quella italiana è fissa sul 46,3 per cento. Penultimi, appunto, nell’Europa dei 27 paesi membri, a dieci lunghezze dall’isola di Malta. In nostra compagnia, sotto il 50%, ci sono Polonia e Grecia. Slovacchia, Romania, Bulgaria viaggiano ben sopra il 50 per cento. Cipro è già al 60%. La Slovenia, appena entrata nella UE, è al 61,8 per cento. La Danimarca guida la classifica con una percentuale del 73,4%. Il sud Italia è il luogo europeo dove le donne lavorano meno in assoluto. Le percentuali sono bloccate al 34,7 per cento (circa il 70 al nord); molte anche giovanissime smettono di cercare lavoro, le chiamano “inattive”. Tra i 35 e i 44 anni, la fascia di età in cui si lavora di più, al nord lavorano 75 donne su 100; al centro 68 e al sud 42.
Anche quando sfondano il “tetto di cristallo” alle donne in generale è comunque destinato uno stipendio inferiore di un quarto di quello del collega maschio. I dati della Presidenza del Consiglio dicono che una dirigente guadagna il 26,3 per cento in meno di un collega maschio. Lo chiamano “differenziale retributivo di genere”, è pari al 23,3 per cento: una donna percepisce, a parità di posizione professionale, tre quarti di uno stipendio di un uomo. E questo nel pubblico. Nel privato la situazione peggiora. Trovare una donna nei consigli di amministrazione e nei board delle aziende è impresa non facile. Nel testo messo a disposizione dalla Presidenza del Consiglio si legge che “nel 63,1 per cento delle aziende quotate, escluse banche e assicurazioni, non c’è una donna nel consiglio di amministrazione”. Su 2.217 consiglieri solo 110 sono donne, il 5%. Va ancora peggio nelle banche dove su un campione di 133 istituti di credito, il 72,2 per cento dei consigli di amministrazione non conta neppure una donna. Benché il 40 per cento dei dipendenti delle banche siano donne, solo lo 0,36 per cento ha la qualifica di dirigente contro il 3,11% degli uomini. C’è qualcosa che non torna visto che a scuola, all’università e nei concorsi le votazioni migliori sono quasi sempre delle studentesse. Le percentuali crescono nelle aziende sanitarie nazionali. In politica la situazione è nota. “Lo sbilanciamento di genere riscontrato in quasi tutte le aziende italiane – si legge nella Nota della Presidenza del Consiglio – può essere un indicatore di scarsa meritocrazia e di processi di valutazione e promozione poco trasparenti. Le pari opportunità sono in Italia un problema evidente come denunciano le statistiche”. l’Italia ha il tasso di occupazione femminile più basso d’Europa ma quelle che lavorano lo fanno più di tutte le altre. Facile da spiegare: il 77, 7 per cento del lavoro domestico è svolto dalle donne. Certo, anche i media danno una rappresentazione della donna parziale, sbagliata, non reale. In tivù trionfa il modello di donna attenta alla moda, che aspira al mondo dello spettacolo, ma anche che è vittima di violenza (14,2%), criminalità o devianze (8,2). A parte la politica (4,8%) e l’arte (0,9%) le altre voci riguardano disagi e sciagure, la cronaca nera prima di tutto. Di tutte quelle donne normali che lavorano non si parla quasi mai.Ma la prima cosa da far capire sarà che l’occupazione femminile deve diventare il terzo ingrediente, insieme a produttività e retribuzioni, di una strategia nazionale che voglia davvero contrastare declino e disagio.

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